Lucrezia (antica Roma)

Sesto Tarquinio[1] e Lucrezia in un dipinto del Tiziano

Lucrezia (in latino Lucretia; ... – Collatia, 509 a.C.), figlia di Spurio Lucrezio Tricipitino e moglie di Lucio Tarquinio Collatino, è una figura mitica della storia romana, legata alla cacciata dalla città dell'ultimo re Tarquinio il Superbo.[1][2] È spesso indicata come Lucrezia Romana.

La leggenda[modifica | modifica wikitesto]

Paolo Farinati, Suicidio di Lucrezia, 1590 circa, affresco, Villa Nichesola-Conforti, Ponton di Sant'Ambrogio di Valpolicella (Verona).

Secondo la versione di Tito Livio sull'istituzione della Repubblica, l'ultimo re di Roma, Tarquinio il Superbo, aveva un figlio di nome Sesto Tarquinio. Durante l'assedio della città di Ardea,[1] i figli del re assieme ai nobili, per ingannare il tempo, tornando di nascosto a Roma, si divertivano a vedere ciò che facevano le proprie mogli durante la loro assenza. Collatino sapeva che nessuna moglie poteva battere la sua Lucrezia in quanto a pacatezza, laboriosità e fedeltà. Così portò con sé gli altri nobili, tra cui Sesto Tarquinio, a visitarla nel pieno della notte: poterono constatare che Lucrezia stava tessendo la lana con le sue ancelle, mentre le nuore del re si divertivano in banchetti e orge.

Tito Livio racconta che Sesto Tarquinio, invitato a cena da Collatino, conobbe la nobildonna, se ne invaghì per la bellezza e la provata castità, e fu preso dal desiderio di averla a tutti i costi.[3] Qualche giorno più tardi, Sesto Tarquinio, all'insaputa di Collatino, andò a Collatia da Lucrezia che, ignorando le sue reali intenzioni, lo accolse in modo ospitale. Terminata la cena, andò a coricarsi nella stanza degli ospiti. Nel pieno della notte si recò nella stanza di Lucrezia con la spada e la immobilizzò, dicendole:[4]

«Lucrezia chiudi la bocca! Sono Sesto Tarquinio e ho una spada in mano. Una sola parola e sei morta!»

Lucrezia di Lucas Cranach il Vecchio, 1538, Staatsgalerie della Residenza Nuova, Bamberga.

Mentre Sesto la violentava, alternando suppliche a minacce, la povera donna, colta da terrore, capì che rischiava la morte. Vedendo che Lucrezia era irremovibile, Sesto minacciò di ucciderla e di disonorarla: avrebbe infatti sgozzato un servo e glielo avrebbe accostato nudo accanto, facendo credere che avesse avuto un rapporto adulterino vergognoso. Lucrezia cedette e Sesto ripartì soddisfatto.[4]

Lucrezia inviò un messaggero al padre a Roma e al marito ad Ardea, pregandoli di raggiungerla al più presto, insieme a un amico fidato, poiché era successa una cosa tremenda. Spurio Lucrezio giunse insieme a Publio Valerio, figlio di Voleso, e Collatino insieme a Lucio Giunio Bruto.[4] In presenza dei suoi cari, Lucrezia in lacrime raccontò l'accaduto e si trafisse il petto con un pugnale, che nascondeva sotto la veste:[1][2][5]

Joerg Breu il Vecchio, Il suicidio di Lucrezia, 1475
(LA)

«Aduentu suorum lacrimae obortae, quaerentique viro "Satin salue?" "Minime" inquit; "quid enim salui est mulieri amissa pudicitia? Vestigia viri alieni, Collatine, in lecto sunt tuo; ceterum corpus est tantum violatum, animus insons; mors testis erit. Sed date dexteras fidemque haud impune adultero fore. Sex. est Tarquinius qui hostis pro hospite priore nocte vi armatus mihi sibique, si vos viri estis, pestiferum hinc abstulit gaudium." Dant ordine omnes fidem; consolantur aegram animi avertendo noxam ab coacta in auctorem delicti: mentem peccare, non corpus, et unde consilium afuerit culpam abesse. "Vos" inquit "uideritis quid illi debeatur: ego me etsi peccato absoluo, supplicio non libero; nec ulla deinde impudica Lucretiae exemplo uiuet." Cultrum, quem sub ueste abditum habebat, eum in corde defigit, prolapsaque in volnus moribunda cecidit. Conclamat vir paterque.»

(IT)

«Alla vista dei congiunti, scoppia a piangere. Il marito allora le chiede: "Tutto bene?" Lei gli risponde: "Come fa ad andare tutto bene a una donna che ha perduto l'onore? Nel tuo letto, Collatino, ci son le tracce di un altro uomo: solo il mio corpo è stato violato, il mio cuore è puro e te lo proverò con la mia morte. Ma giuratemi che l'adultero non rimarrà impunito. Si tratta di Sesto Tarquinio: è lui che ieri notte è venuto qui e, restituendo ostilità in cambio di ospitalità, armato e con la forza ha abusato di me. Se siete uomini veri, fate sì che quel rapporto non sia fatale solo a me ma anche a lui." Uno dopo l'altro giurano tutti. Cercano quindi di consolarla con questi argomenti: in primo luogo la colpa ricadeva solo sull'autore di quell'azione abominevole e non su di lei che ne era stata la vittima; poi non è il corpo che pecca ma la mente e quindi, se manca l'intenzione, non si può parlare di colpa. Ma lei replica: "Sta a voi stabilire quel che si merita. Quanto a me, anche se mi assolvo dalla colpa, non significa che non avrò una punizione. E da oggi in poi, più nessuna donna, dopo l'esempio di Lucrezia, vivrà nel disonore!" Afferrato il coltello che teneva nascosto sotto la veste, se lo piantò nel cuore e, piegandosi sulla ferita, cadde a terra esanime tra le urla del marito e del padre.[2][6]»

Il marito Collatino, il padre e il suo grande amico Lucio Giunio Bruto decisero di vendicarla, provocando e guidando una sommossa popolare, che cacciò i Tarquini da Roma e li costrinse a rifugiarsi in Etruria.

Così nacque la res publica romana, i cui primi due consoli furono Lucio Tarquinio Collatino e Lucio Giunio Bruto, artefici della sollevazione contro quello che fu l'ultimo re di Roma.

Note[modifica | modifica wikitesto]

  1. ^ a b c d Eutropio, Breviarium ab Urbe condita, I, 8.
  2. ^ a b c Livio, Periochae ab Urbe condita libri, 1.49.
  3. ^ Tito Livio, Ab Urbe condita libri, I, 57.
  4. ^ a b c Tito Livio, Ab Urbe condita libri, I, 58.
  5. ^ Floro, Epitoma de Tito Livio bellorum omnium annorum DCC, I, 7.11.
  6. ^ Livio, Periochae ab Urbe condita libri, 1.29.

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