Seppuku

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Il generale Akashi Gidayū si prepara al seppuku dopo aver perso una battaglia nel 1582. Ha scritto la sua ultima poesia, visibile nell'angolo in alto a destra del dipinto
Seppuku

Seppuku[1] (切腹?) è un termine giapponese che indica un antico rituale per il suicidio obbligatorio o volontario, privilegio esclusivo della casta dei samurai.[2][3][4] Era il modo in cui il samurai evitava la pena capitale, manifestava cordoglio per la morte del proprio signore, manteneva il proprio onore se a rischio di perderlo oppure protestava per un'ingiustizia subita.[2]

Vocabolario ed etimologia[modifica | modifica wikitesto]

Il seppuku ("taglia ventre") è anche conosciuto come harakiri (腹切り?, "ventre taglio") che è scritto con lo stesso kanji ma in ordine inverso, con un okurigana. In giapponese il termine più formale seppuku, una lettura cinese on'yomi, è usato di solito nella lingua scritta, mentre harakiri, una lettura kun'yomi, è utilizzato nella lingua parlata.

Christopher Ross afferma:

«Di norma si considera hara-kiri come un termine di uso volgare, ma si tratta di un malinteso. Hara-kiri è la lettura giapponese Kun-yomi dei caratteri; poiché divenne uso comune preferire la lettura cinese negli annunci ufficiali, negli scritti si impose l'uso del termine seppuku. Quindi hara-kiri è un termine del registro parlato, mentre seppuku è un termine del registro scritto per indicare lo stesso atto.»

La pratica di fare seppuku alla morte del proprio signore, nota come oibara (追腹? o 追い腹?, il kun'yomi o lettura giapponese) o tsuifuku (追腹?, lo on'yomi o lettura cinese), segue un rituale simile.

La tradizione[modifica | modifica wikitesto]

Il seppuku veniva eseguito, secondo un rituale rigidamente codificato, come espiazione di una colpa commessa o come mezzo per sfuggire a una morte disonorevole per mano dei nemici. Si riteneva che il ventre fosse la sede dell'anima e pertanto il significato simbolico sotteso al rituale era quello di mostrare agli astanti la propria essenza, priva di colpe e in tutta la sua purezza. Il primo atto di seppuku di cui si abbia traccia fu compiuto da Minamoto no Yorimasa durante la battaglia di Uji nel 1180.[5]

Alcune volte praticato volontariamente per svariati motivi, durante il periodo Edo (1603-1867) divenne una condanna a morte che non comportava disonore: il condannato, infatti, vista la sua posizione nella casta militare, non veniva giustiziato ma invitato o costretto a togliersi da solo la vita praticandosi con un pugnale (tantō) una ferita profonda all'addome, di una gravità tale da provocarne la morte.

Il rituale[modifica | modifica wikitesto]

Ricostruzione di un suicidio rituale giapponese (1897). Sullo sfondo, in piedi, il kaishakunin

Il taglio doveva essere eseguito da sinistra verso destra e poi verso l'alto mentre ci si trovava nella classica posizione giapponese detta seiza, cioè in ginocchio con le punte dei piedi rivolte all'indietro; ciò aveva anche la funzione di impedire che il corpo cadesse all'indietro poiché, secondo il codice morale allora seguito, il guerriero deve morire cadendo onorevolmente in avanti.

Per preservare ancora di più l'onore del samurai, un fidato compagno, chiamato kaishakunin, previa promessa all'amico, decapitava il samurai appena egli si era inferto la ferita all'addome in modo che il dolore non gli sfigurasse il volto. La decapitazione (kaishaku) richiedeva eccezionale abilità e infatti il kaishakunin era l'amico più abile nel maneggio della spada: un errore derivante da poca abilità o emozione avrebbe infatti causato notevoli ulteriori sofferenze. L'importanza e l'abilità erano vitali visto che la testa non doveva staccarsi dal corpo (sarebbe stato un disonore se avesse toccato terra distante dal corpo), ma il colpo doveva recidere di netto solo la parte posteriore del collo (recante spina dorsale e midollo) e lasciare la parte anteriore, formata solo dai muscoli e tessuti molli, come collegamento.

Il più noto caso di seppuku collettivo è quello dei quarantasette ronin, celebrato anche nel dramma Chūshingura, mentre uno tra i più recenti è quello dello scrittore Yukio Mishima, avvenuto nel 1970; in quest'ultimo caso il kaishakunin Masakatsu Morita, in preda all'emozione, sbagliò ripetutamente il colpo di grazia e pertanto dovette intervenire Hiroyasu Koga, che decapitò lo scrittore.

Una delle descrizioni più accurate di un seppuku è quella contenuta nel libro Tales of old Japan (1871) di Algernon Bertram Mitford[6], ripresa in seguito da Inazo Nitobe nel suo libro Bushidō, l'anima del Giappone (1899). Mitford fu testimone oculare del seppuku eseguito da Taki Zenzaburo, un samurai che, nel febbraio 1868, aveva dato l'ordine di sparare sugli stranieri a Kōbe e, assuntasi la completa responsabilità del fatto, si era dato la morte con l'antico rituale. La testimonianza è di particolare interesse perché resa da un occidentale che descrive una cerimonia così lontana dalla sua cultura con grande realismo.

Anche all'interno di un libro di Mishima, A briglia sciolta, sono contenute numerose descrizioni di seppuku compiute da alcuni samurai dopo aver tentato un'insurrezione per restaurare l'ordine tradizionale in Giappone e reintegrare l'Imperatore nella pienezza del suo potere.[7]

Coltello tantō, preparato per il seppuku

Nel 1889, con la costituzione Meiji, venne abolito come forma di punizione. Un caso celebre fu quello dell'anziano ex-daimyō Nogi Maresuke, che si suicidò nel 1912 alla notizia della morte dell'imperatore. Casi di seppuku si ebbero al termine della seconda guerra mondiale tra quegli ufficiali, spesso provenienti dalla casta dei samurai, che non accettarono la resa del Giappone.

Con il nome di jigai il seppuku era previsto, nella tradizione della casta dei samurai, anche per le donne; in questo caso il taglio non avveniva al ventre bensì alla gola dopo essersi legate i piedi per non assumere posizioni scomposte durante l'agonia. Anche di ciò è presente una descrizione nel citato libro di Mishima A briglia sciolta. La protagonista dell'opera Madama Butterfly di Puccini muore facendo uno jigai.

L'arma usata poteva essere il tantō, anche se più spesso, soprattutto sul campo di battaglia, la scelta ricadeva sul wakizashi, detto anche "guardiano dell'onore", la seconda lama - più corta della katana - che era portata di diritto dai soli samurai.

Note[modifica | modifica wikitesto]

  1. ^ Marco Mancini, Orientalismi, in Enciclopedia dell'italiano, Roma, Istituto dell'Enciclopedia Italiana, 2010-2011. URL consultato il 19 gennaio 2018.
  2. ^ a b Harakiri, in Treccani.it – Enciclopedie on line, Roma, Istituto dell'Enciclopedia Italiana.
  3. ^ Seppuku, in Treccani.it – Vocabolario Treccani on line, Roma, Istituto dell'Enciclopedia Italiana.
  4. ^ Harakiri, in Enciclopedia Italiana, Roma, Istituto dell'Enciclopedia Italiana.
  5. ^ Stephan R. Turnbull, The Samurai: A Military History, New York, MacMillan Publishing Co., 1977, p. 47.
  6. ^ Tales of Old Japan, su munseys.com. URL consultato il 19 febbraio 2011 (archiviato dall'url originale il 6 dicembre 2012).
  7. ^ Y. Mishima, Cavalli in Fuga, Feltrinelli

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