Radioso maggio

La folla accalcata attorno al monumento ai Mille di Quarto il 5 maggio 1915, durante l'orazione interventista di Gabriele D'Annunzio

Con l'espressione radioso maggio si intende il periodo subito precedente l'entrata dell'Italia nella prima guerra mondiale, corrispondente al mese di maggio 1915. Durante tale periodo, si susseguirono in tutto il paese manifestazioni e scioperi che vedevano contrapposti due schieramenti: gli "interventisti" da una parte, che premevano per l'ingresso dell'Italia in guerra, e i "neutralisti" dall'altra, che al contrario speravano di tenere fuori il Paese dal conflitto. Questo periodo fu definito enfaticamente dai sostenitori dell'intervento come «radiose giornate» di maggio, mentre furono ribattezzate dagli oppositori come «sud americane giornate di maggio», per accentuare il carattere facinoroso e intimidatorio che ebbero gli interventisti[1]. Nonostante la diatriba tra i due schieramenti durasse ormai da quasi un anno, solo nel mese di maggio si ebbe una vera e propria escalation di avvenimenti che portarono in piena luce le contrapposte dinamiche delle forze popolari che si erano affermate in Italia durante il periodo di neutralità. Ad innescare gli eventi, fu la crisi politica esplosa il 9 maggio 1915, giorno in cui Giovanni Giolitti si recò a Roma per prendere le redini della maggioranza parlamentare neutralista, cosa che imbaldanzì i deputati del medesimo orientamento, che erano la maggioranza, e scompaginò i piani di Salandra e del re Vittorio Emanuele, gettando lo sconcerto nelle file degli interventisti. L'allora presidente del Consiglio Antonio Salandra, convinto interventista, si era già legato con le forze dell'Intesa con un patto segreto che obbligava l'Italia ad intervenire in guerra entro un mese dalla firma del patto stesso[2], ma Giolitti, che aveva la fiducia della maggioranza dei deputati della Camera, aveva tecnicamente anche il potere di revocare il patto. Solo la imponente campagna editoriale e propagandistica, spinta dagli interessi economici di alcune grandi imprese interessate alle commesse militari, dai movimenti nazionalistici e dalla maggior parte della élite intellettuale della nazione, poté sovvertire il volere della maggioranza neutralista italiana, consentendo al governo Salandra di ratificare il patto e dare inizio, di fatto, all'avventura bellica dell'Italia nella prima guerra mondiale, che costò quasi 700 000 morti.

Premesse[modifica | modifica wikitesto]

Lo stesso argomento in dettaglio: Neutralità italiana (1914-1915).
Antonio Salandra
Giovanni Giolitti

Allo scoppio della prima guerra mondiale il governo italiano si dichiarò neutrale, nonostante fosse legato ufficialmente con gli imperi centrali, e dal quel momento in poi all'interno del paese si andarono a formare due diversi correnti politiche: da una parte coloro che erano a favore dell'entrata in guerra e coloro, che al contrario, volevano tenere fuori il Paese dal conflitto. I neutralisti appaiono più numerosi degli interventisti, anche e soprattutto se misurati guardando i loro referenti politici.

Originariamente quattro, tali referenti durante la crisi di governo del maggio 1915 si ridussero quantomeno a due, socialisti e liberali giolittiani (mentre i cattolici assunsero posizioni diverse e ambigue); infine a uno (i socialisti) quando la crisi rientra. Il primo referente politico neutralista a diluirsi man mano che il governo rendeva decifrabili le sue propensioni - fu il variegato mondo dei conservatori: il notabilato, la destra liberale, gli agrari e gli uomini d'ordine, coloro che - come il ministro degli esteri Antonino di San Giuliano e poi Sonnino suo successore da ottobre - non avrebbero visto male il rispetto della Triplice Alleanza, e se ne allontanarono con rammarico e a fatica. Il «sacro egoismo» nacque da qui, e Salandra divenne l'uomo giusto. Questa neutralità non ebbe nessun ideale, i conservatori stettero a guardare ragionando in termini di convenienza, e che alla fine si schierarono a favore dell'intervento a fianco dell'Intesa[3]. I cattolici dal canto loro ribadirono fin da subito la loro propensione alla pace e allo spirito umanitario, nonostante la tradizionale simpatia per l'Austria, baluardo della conservazione e paese fervente cattolico. Condizionati dalle decisioni del governo - il solo legittimo detentore del potere a cui i cattolici avrebbero dovuto mostrare obbedienza - questi si dimostrarono pronti ad appoggiare il nazionalismo e gli uomini d'ordine, e anche negli ambienti cattolici si assistette ad una lenta conversione verso la guerra[4]. Un fattore decisivo per quanto accadde in Italia in quei dieci mesi fu indubbiamente lo scollamento e l'indecisione delle due correnti neutraliste più forti, i socialisti e la classe liberale. I primi, i più numerosi, in maggior parte resteranno ostili alla guerra, ma al suo interno ci fu fin da subito una sorta di "diaspora" che portò molti socialisti ad appoggiare il richiamo nazionale andando a gremire le file interventiste[5]. Caratteristica in questo senso fu l'attività del deputato socialista trentino Cesare Battisti, che percorse tutta l'Italia per convincere i suoi compatrioti che «l'ora di Trento è suonata» e che il socialismo non può ignorare le radici nazionali e le ragioni dell'appartenenza nazionale[6]. Ma forse la vicenda più rappresentativa delle divisioni interne dei socialisti, fu la fuoriuscita del direttore dell'Avanti! Benito Mussolini, prima dal giornale e infine dal partito stesso. Ma il cambiamento di rotta di Mussolini non rimase una scelta personale, venne anzi condivisa dalla sezione milanese del partito, e venne utilizzata dal mondo politico per puntare il dito contro le divisioni interne ai neutralisti. Il 10 novembre Mussolini dichiarò che «il vecchio anti-patriottismo è tramontato» e cinque giorni dopo, sul primo numero de Il Popolo d'Italia, uscì il famoso pezzo Audacia in cui Mussolini scrisse a favore della guerra[7]

La copertina interventista del mese di maggio 1915 della rivista "Il pianoforte"

Ma il paese non si pronunciava in modo netto perché la maggioranza era «silenziosa», e sostanzialmente neutralista, ma non aveva il coraggio di opporsi agli interventisti, i quali, sempre più baldanzosi e vociferosi, spadroneggiavano nelle piazze, godevano dell'appoggio dei giornali più potenti ed esercitavano una sorta di terrorismo ideologico contro cui nessuno si ribellava. Essi accusavano i pacifisti di essere gente ottusa, di corte vedute, con cui gli intellettuali e i giovani non volevano confondersi[8]. Il fronte interventista poté crescere e prevalere perché il parallelismo fra le motivazioni e spinte dei fautori della guerra, venne in parte superato nel momento decisivo, mentre le correnti neutraliste non riuscirono mai a trovare un progetto comune e dei punti d'incontro[9]. I fautori dell'intervento di parte progressista si rifacevano agli ideali di democrazia e alla lotta contro le monarchie autocratiche e alla liberazione di Trento e Trieste. I nazionalisti parlavano di nuovi possedimenti in Dalmazia, del dominio sul mare Adriatico, del protettorato sull'Albania e di compensi coloniali. Tutti però additavano la diminuzione della statura politica incombente sull'Italia: se fosse rimasta spettatrice passiva i vincitori non avrebbero dimenticato né perdonato, e se i vincitori fossero stati gli Imperi centrali, si sarebbero anche vendicati della nazione che accusavano traditrice di un'alleanza trentennale[10]. Secondo gli interventisti, questa guerra avrebbe inoltre vendicato tutte le sconfitte e le umiliazioni del passato subite contro gli Asburgo, e avrebbe permesso di completare l'unità d'Italia con l'annessione delle terre irredente, terre che tra l'altro l'Intesa avrebbe assicurato all'Italia se si fosse schierata al suo fianco[11].

Il ruolo della stampa[modifica | modifica wikitesto]

Copertina di Lacerba del 15 maggio 1915

Alla vigilia della grande guerra, i principali quotidiani di partito potevano contare su circa un milione di lettori, un numero molto alto considerando l'elevato tasso di analfabetismo in Italia nel primo novecento. Tale successo fu un elemento fondamentale nella formazione dell'opinione pubblica delle piazze italiane durante il periodo di neutralismo, anche se non è possibile valutare quanto la stampa abbia effettivamente influenzato il governo. La mobilitazione fu rapida e partì subito dopo l'attentato di Sarajevo, quando in breve tempo tutti i giornali si schierarono a favore o contro la guerra[12]. Mentre il Corriere della Sera assieme ai giornali giolittiani come La Tribuna, La Stampa e Il Resto del Carlino accolsero la notizia dell'attentato in modo cauto, senza prendere posizione, non così si può dire dei quotidiani filo interventisti come Il Giornale d'Italia, la Gazzetta del Popolo e Il Secolo, dove divennero celebri gli interventi irredentisti di Cesare Battisti, e dove iniziò a circolare l'idea che l'Italia avrebbe dovuto denunciare l'alleanza con le potenze Centrali a favore dell'Intesa. A tal proposito Gaetano Salvemini arrivò addirittura a sospendere per un breve periodo le pubblicazioni de L'Unità con un editoriale intitolato Non abbiamo niente da dire, in cui scrisse che la vittoria delle potenze militariste di Germania e Austria-Ungheria «soffocherebbe ogni movimento democratico, e dissiperebbe anche nei paesi vinti e neutrali ogni qualunque tradizione di libertà civile»[13]. I primi a schierarsi apertamente contro l'intervento furono i quotidiani dell'ala socialista e cattolica, i cui valori di pace e unità tra i popoli si scontravano evidentemente contro ogni possibilità di conflitto armato. Ma, mentre il neutralismo cattolico si andò via via attenuando nel corso dei mesi, i socialisti dell'Avanti! iniziarono una loro campagna neutralista che durò fino alla vigilia del conflitto, mantenendo un atteggiamento contrario alla guerra per molto più tempo rispetto alle loro controparti in Europa, le quali, in nome dell'unità nazionale, assunsero fin da subito un atteggiamento patriottico avvicinando il loro elettorato alle necessità nazionali[N 1]. Il giornale diretto da Mussolini, assieme ai dirigenti della Cgl e dell'Usi, nell'agosto 1914 dichiararono addirittura che in caso di sconfitta dei neutralisti, il proletariato sarebbe stato indisponibile alla guerra e avrebbe proclamato lo sciopero generale[14]. Ma anche tra i socialisti si poté assistere ad una parziale inversione di marcia tra i suoi leader, primo su tutti lo stesso Mussolini, che dopo il suo famoso articolo Dalla neutralità assoluta alla neutralità attiva ed operante si dimise da direttore dell'Avanti! per fondare Il Popolo d'Italia. Il quotidiano assunse fin da subito il ruolo di "faro" della stampa anti-giolittiana, e fu uno dei primi casi di "stampa impura", in quanto finanziato dai gruppi industriali interessati all'intervento[13]. A fianco di Mussolini si schierò subito Giuseppe De Robertis e la sua rivista La Voce, a cui seguirono varie riviste interventiste vicine agli ambienti di destra, come L'Idea Nazionale e Il Dovere Nazionale che diedero voce alle faziosità anti-neutraliste e liberticide degli intellettuali militanti del nazionalismo italiano come Enrico Corradini, Francesco Coppola, Luigi Federzoni, Maffeo Pantaleoni, i quali offrirono una sponda politica al patriottismo di Gabriele D'Annunzio nel suo "radioso maggio"[15].

Anche la pittura diede un contributo alla causa interventista, esempio è il dipinto Carica di Lancieri di Umberto Boccioni del 1915

Così durante i giorni di maggio 1915 la stampa assunse un ruolo fondamentale per entrambi gli schieramenti, ma mentre per i neutralisti lo scollamento delle correnti politiche rese silenziosa anche la stampa neutralista, a favore degli interventisti si schierarono, anche con campagne di stampo sovversivo e diffamatorio, molti dei giornali diretti dagli intellettuali interventisti e dalle correnti politiche e industriali che appoggiavano l'intervento[16]. In questo senso un ruolo fondamentale fu quello della rivista Lacerba, condotta da Ardengo Soffici, Giuseppe Prezzolini e, in parte, da Piero Jahier, che nei giorni "caldi" del "radioso maggio" condussero una campagna denigrante e di mobilitazione emotiva, che sfociò in invettive volgari contro Giolitti e i neutralisti. Nel Trionfo della merda Soffici inveì contro il governo, definendolo come la «quintessenza di questa materia fecale» contro il quale bisognava ricorrere alle armi se «non vogliamo che l'Italia piombi al livello della più vergognosa fra le nazioni»[16]. Questa sovversione risuonò fortemente negli ultimi numeri di Lacerba del maggio 1915, quando per eliminare ogni ultima possibilità di trattativa dei giolittiani, apparvero articoli accusatori e sovversivi: «[...] si sta tentando a Roma la più immonda infamia [...] un uomo, nel quale s'impersona la corruzione parlamentare di vent'anni, pretende d'esser l'arbitro e il padrone d'Italia», e se la guerra, per colpa di Giolitti, dovesse essere evitata «sarebbe necessaria la rivoluzione e la guerra civile»[17]. L'apporto dei giornali fu dunque determinante in quei giorni di maggio, e se le riviste come Lacerba nacquero nel principio come organi totalmente politici, anche gli organi di informazione più diffusi come il Corriere della Sera di Luigi Albertini, col tempo si fecero portavoce del partito liberale, interpretando il blocco moderato governativo che dalla neutralità si schiererà durante i mesi, per l'intervento, dimostrando come l'idea di informazione neutra fosse decaduta a favore degli orientamenti della classe dirigente[18].

Il Patto di Londra[modifica | modifica wikitesto]

Gabriele D'Annunzio parla contro il "giolittismo" al teatro Costanzi di Roma (copertina della Domenica del Corriere, maggio 1915)

A cavallo tra la fine del 1914 e l'inizio del 1915, la classe dirigente italiana appare ancora in condizione di riunificarsi e di trovare nel paese un vasto consenso sociale nell'eventualità di acquisti territoriali a spese dell'Impero austro-ungarico, che gli interventisti democratici potevano appoggiare in chiave irredentista, mentre i salandrini in nome del «sacro egoismo» basato sui meri interessi, e i giolittiani in nome del «parecchio», basato sulle concessioni massime ottenibili dalle potenze centrali. Il dualismo fra la destra liberale che deteneva la maggioranza nel governo, e il potere "materiale" detenuto da Giolitti, dovuto al notevole capitale di uomini e di relazioni nazionali e internazionali accumulate dallo statista nel corso dei decenni, fece sì che questi diventasse il polo extra-governativo di molteplici attese e pressioni[19]. In Italia molti speravano in lui, soprattutto coloro (la maggioranza) che desideravano tenere l'Italia fuori dalla guerra, mentre fuori dalla nazione, e in particolare da parte degli Imperi centrali, finirono per riferirsi a lui coloro che speravano di scongiurare l'entrata in campo di un avversario in più. Il capo presunto dell'opposizione neutralista - il socialista Filippo Turati - scrisse ad Anna Kuliscioff ai primi di marzo: «In guerra non si va [...] Ma la guerra nessuno la vuole, come non si vuole il cholera (sic) - semplicemente». Il 10 marzo Turati scrisse ancora: «Oggi si dava per sicuro il contratto con Bülow[20] e coll'Austria: Trentino, rettifica confine all'Isonzo, Trieste neutralizzata. Non me ne intendo, ma mi sembrano bubbole solenni. Di positivo c'è la visita di Salandra a Giolitti, pare per consiglio del re, perché Giolitti essendo il vero capo della maggioranza gli ambasciatori con Salandra e Sonnino non trattano affatto non credendoli responsabili»[21].

La prima pagina pacifista del numero del Primo maggio 1915 dell'Avanti!

Questo gioco fece diventare Giolitti agli occhi degli interventisti, come l'«uomo dei tedeschi», e in questo contesto fu una celebre lettera scritta in nome del «parecchio» che Giolitti fece pubblicare sul quotidiano liberale giolittiano per eccellenza La Tribuna, a gettare benzina sul fuoco: «Non credo sia lecito portare il paese alla guerra per sentimentalismo verso gli altri popoli. Per sentimento ognuno può gettare la propria vita, non quella del paese. Ma quando fosse necessario non esiterei nell'affrontare la guerra, e l'ho provato. Credo parecchio, nelle attuali condizioni dell'Europa potersi ottenere senza guerra». In quel periodo queste parole furono percepite come eresia antinazionale, e in un clima già surriscaldato, questo invito alla ragione fu del tutto travisato. L'Austria inoltre non colse l'occasione per utilizzare la sponda giolittiana per i suoi interessi, e continuò con la sua politica di atteggiamenti negligenti e dilatori nei confronti delle esigenze italiane, scoraggiando da una parte chi lavorava per una trattativa, e favorendo dall'altra sia gli interventisti, sia l'altra trattativa che portavano avanti Salandra e Sonnino con l'Intesa[22]. Questi, proprio perché non pensavano ad una guerra di principi, ma di interessi e di potenza, non furono del tutto indifferenti ad altre ipotesi diplomatiche, né poterono permettersi di rimandare le ipotesi di accordo con l'Intesa. Già in precedenza non erano mancati contatti diplomatici, ma da marzo i contatti con la Gran Bretagna accelerarono - e nonostante i tentativi di mediazione dei tedeschi tra l'Italia e l'Austria - le potenze dell'Intesa garantirono all'Italia maggiori vantaggi in cambio dell'entrata in guerra rispetto alle concessioni che venivano date dall'Austria[23]. All'epoca, le previsioni dello stato maggiore italiano non contemplavano ciò che in realtà successe, e nessuno poteva immaginare quanto sanguinosa poteva essere la guerra per l'Italia, così il 26 aprile 1915 venne stipulato il Patto di Londra - segreto - che impegnava l'Italia ad entrare in guerra entro un mese, e gli garantiva il Trentino, il Sud Tirolo con il confine al Brennero, Trieste, l'Istria sino al Quarnaro (ma senza Fiume), la Dalmazia, un protettorato in Albania, e concessioni indefinite in caso di disgregazione dell'Impero ottomano e guadagni coloniali da parte inglese e francese. È evidente come le trattative fecero sì che alla fine le motivazioni che portarono l'Italia a schierarsi a fianco dell'Intesa furono un coacervo, in cui le motivazioni risorgimentali e libertarie di alcuni furono costrette a confondersi con il «sacro egoismo» della vecchia destra e con le propensioni imperialistiche della nuova[24], incarnata da Mussolini e D'Annunzio, che vedevano nelle minoranze agguerrite, "padrone delle piazze", l'arma per arrivare al potere. Tutto il contrario rispetto alla vecchia destra dei notabili, che fu sempre diffidente nei confronti delle masse, e pensò fino all'ultimo di poter governare a prescindere dalla volontà della piazza[9], la quale invece fu il fattore fondamentale per la riuscita dei piani di Salandra[25].

Gli avvenimenti di maggio[modifica | modifica wikitesto]

Il discorso di Quarto[modifica | modifica wikitesto]

Lo stesso argomento in dettaglio: Discorso di Quarto.
Fotografia d'insieme dell'area di Quarto dei Mille durante il discorso di D'Annunzio

Il 5 maggio 1915, in seno alle imponenti manifestazioni che si svolsero a Genova in occasione delle celebrazioni del primo maggio, due cortei composti in tutto da circa 20.000 persone, a cui si aggiunse una gran folla assiepata nelle strade, raggiunsero l'area dello scoglio di Quarto da cui partì l'impresa di Giuseppe Garibaldi, e dove era programmata l'inaugurazione del monumento dedicato alla spedizione garibaldina del 1860[26]. In quei giorni poche persone sapevano del patto di Londra, anche se si può ritenere che i sentori di una prossima entrata in guerra fosse di dominio pubblico, dato che un esercito non può prendere posizione in forma clandestina. Eppure quel giorno le speranze degli interventisti di vedere il re all'inaugurazione venne delusa, né il capo dello stato né il governo volevano scoprire le carte[24], e a tenere l'orazione ufficiale della commemorazione fu chiamato Gabriele D'Annunzio, il quale era allora un'autentica celebrità per il pubblico. D'Annunzio aveva inaugurato la nuova figura di intellettuale abituato a comparire sugli scenari della vita pubblica, a dettare aspetti della moda, a influire i comportamenti collettivi e ad usare i mezzi di comunicazione di massa[27]. Quando aveva accolto l'invito a tenere la sua orazione pubblica, egli non poteva sapere che il giorno prima - 4 maggio - l'Italia si sarebbe ufficialmente ritirata dalla Triplice (passo decisivo verso l'intervento) dopo essere rimasta per otto giorni, cioè dal 26 aprile quando aveva firmato il patto di Londra, alleata contemporaneamente dei due blocchi in guerra. L'annuncio non era ancora stato dato, ma l'entusiasmo degli interventisti, che ora «andavano incontro al loro vate per preparargli una oceanica adunata», era molto alto[28].

La manifestazione del 5 maggio 1915 in una pittura di Plinio Nomellini

La performance di D'Annunzio fu all'altezza della sua fama; il discorso fu teso a circondare l'evento di un alone di sacralità, e il timbro principale fu dunque quello religioso, e religiosi - anzi biblici - furono molti dei rimandi simbolici e delle movenze ritmiche dell'orazione. Tutto il discorso fu pieno di riferimenti mistici, riprendendo la simbologia classica e cristiana, con continue allusioni al fuoco sacro simbolo di rigenerazione, di ardore guerresco e di eroismo, di fusione tra la vita e la morte[29]. Con voce lenta e gesti ispirati cominciò a scandire il suo acclarato appello alla folla accalcata attorno al palco: «Voi volete un'Italia più grande non per acquisto, ma per conquisto, non a misura, ma a prezzo di sangue e gloria... O beati quelli che più danno perché più potranno dare, più potranno ardere... Beati i giovani affamati di gloria, perché saranno saziati...»[30].

D'Annunzio diede forma agli umori di una Italia convinta di poter contare in Europa spinta dall'affermazione della sua identità. E nella quale nulla appariva più esecrabile alle giovani generazioni, del vecchio modo di concepire la vita rappresentato dalla politica paziente di giolittiana memoria, al quale andava contrapposto il bisogno di bellezza, di grandezza e di cambiamento. Tutto ciò fu rappresentato alla perfezione da D'Annunzio, il quale entrava in rotta di collisione con la vecchia Italia, prudente e appartata, che la classe dirigente liberale aveva forgiato e che ora sembrava attardarsi colpevolmente di fronte alla guerra[31]. Durante l'orazione le ovazioni salirono senza sosta, e D'Annunzio si abbandonò ad una vera e propria orgia oratoria, che oltre tutto dettò il modello ad uno stile tribunizio destinato ad avere molto successo in Italia. Il discorso divenne un vero e proprio dialogo con la folla: «Udite, udite: la Patria è in pericolo, la Patria è in un punto di perdimento. Intendete? Avete inteso?», e la folla «Siii...». Il poeta quindi ribatté: «Questo vuole il mestatore di Dronero! [Giolitti n.d.r.]...», e la folla: «A morte!». Grazie al suo fiuto, D'Annunzio aveva subito intuito il bersaglio contro cui incanalare e scaricare le passioni della piazza[30]. Gli accenti aulici che caratterizzarono le giornate genovesi di D'Annunzio dal 4 al 7 maggio, furono di intonazione molto ufficiale, ma questa dialettica sparirà durante le giornate romane, dal 12 al 20 maggio, dove il linguaggio aulico e di riconciliazione nazionale lascerà il posto all'invettiva anti-giolittiana sferzante e plebea. In questo contesto vengono accentuati da D'Annunzio i richiami rivoltosi al "popolo", che viene così chiamato in causa per «impedire l'orribile assassinio» e contro «il tradimento» di un «pugno di ruffiani» capeggiati dal «vecchio boia labbrone». Il poeta mobilita tutte le sue risorse psicologiche con le quali colpevolizza il "nemico interno", che diverrà presto il "disfattista" contro il quale gli interventisti si autodefiniranno gli interpreti del paese reale contro la viltà dei rappresentanti legali, invocando la collera popolare contro il parlamento[32]. D'Annunzio quindi nelle sue giornate genovesi si preoccupò di elevare la guerra ad un concetto religioso e di sacralità, sottraendola in tal modo al giudizio politico dei cittadini, chiamati al dovere di unità all'interno di una sorta di "corpo mistico" formato dalla chiesa e dallo stato. E questa sacralità verrà in qualche modo capitalizzata quando verrà chiamata in causa durante le giornate romane, durante le quali il poeta-vate la utilizzerà per mobilitare gli animi in senso bellicista, interpretando le decisioni del governo o a stimolo delle decisioni politiche del governo stesso[33].

Giolitti arriva a Roma[modifica | modifica wikitesto]

Prima pagina de "La Stampa" del 13 Maggio, con la notizia della solidarietà dei deputati a Giolitti

Fra il 5 maggio, giorno in cui tutti credevano di essere ad un passo dalla guerra, e il 13, quando tutta la situazione sembrava ritornare al punto di partenza, si verificarono due contro-gesti significativi: l'arrivo di Giolitti a Roma a Camere chiuse, e la dimostrazione della persistente fedeltà dei parlamentari giolittiani, con il celebre espediente dei 250-300 biglietti da visita recapitati allo statista nella sua abitazione romana[34].

Arrivato a Roma, Giolitti fu subito informato da Salandra che il Patto di Londra era stato firmato e il re lo aveva personalmente avallato; Giolitti perse la consueta calma e si abbandonò alle più fosche previsioni. L'indomani Giolitti fu convocato dal re, e ribadì la sua opinione che il Paese era in maggioranza contrario alla guerra, che le forze armate non erano in grado di affrontarla, e che pertanto il Patto andava revocato. Il re rispose che non poteva farlo perché si era personalmente impegnato a rispettarlo; ma se necessario, per le esigenze del paese era pronto ad abdicare a favore del cugino Duca d'Aosta. Giolitti ribatté che non serviva ricorrere ad un atto così estremo: bastava che la Camera, riconfermandogli la fiducia, desse mandato al governo di revocare il Patto e riprendere le trattative con l'Austria, ormai pronta a cedere a tutto pur di conservare l'alleanza con l'Italia. Subito seguì un incontro con Salandra, dove Giolitti ribadì i medesimi concetti espressi al re, confermando la sua idea: un voto alla Camera che, confermando la neutralità, desse mandato al governo di riprendere i negoziati con l'Austria, liberandosi dagli impegno con Londra[35]. Secondo Giolitti non c'era bisogno di una "crisi", perché la Camera ignorava questi impegni, e quindi il governo poteva restare in carica. Salandra si disse d'accordo sul voto alla Camera, ma insisté sulla necessità delle dimissioni. Giolitti non voleva il potere, sapeva che anche se avesse vinto alla Camera, avrebbe perso sulle piazze, ormai in completa balìa della minoranza interventista[36].

Il fantasma del «parecchio» tornò ad aleggiare, e i neutralisti misero in giro la voce che «l'Austria ci farebbe adesso delle concessioni tali da accontentare il più frenetico degli imperialisti italiani»[34]. L'11 maggio su La Stampa uscirono, assieme alla notizia degli sbarchi inglesi nei Dardanelli e della trionfale avanzata austro-tedesca in Galizia, anche le ultime allettanti offerte austriache, e i neutralisti si sentirono incoraggiati e rialzarono la testa quanto bastava per mettere in crisi il governo[36]. Lo stesso giorno Mussolini su Il Popolo d'Italia nella sua feroce invettiva Abbasso il Parlamento! ironizzò: «nuove speranze risorgono nei cuori dei più incarogniti triplicisti». Il giorno seguente lo stesso Mussolini nel suo pezzo Il delitto accusa Giolitti di avere, con la sua iniziativa parallela a quella del governo in carica, «diviso il paese mentre stava unificandosi»: dalla metà di aprile infatti, secondo Mussolini, «si era venuto formando uno stato d'animo di fiduciosa attesa negli elementi interventisti e di passiva rassegnazione fra quelli neutralisti»[34]. Giolitti fu messo quindi al centro di una indignata e intensa campagna diffamatoria; Giuseppe Prezzolini lo definì la «canaglia di Dronero» (dal nome del suo collegio elettorale), Gabriele D'Annunzio parlò invece di «mestatore di Dronero» e aggiunse che per Giolitti «la lapidazione, l'arsione, subito deliberate e attuate, sarebbero assai lieve castigo» mentre Ardengo Soffici lo descrisse come «ignobile, losco, vomitativo»[37].

La crisi di governo[modifica | modifica wikitesto]

I neutralisti avrebbero potuto votare per la sfiducia al governo, e il candidato più probabile alla successione era per forza di cose lo stesso Giolitti, che da abile manovratore avrebbe aperto all'ala socialista tenendo in mano le redini del governo[38]. Il 12 maggio ci fu un lungo e laborioso Consiglio dei Ministri, dove fu deciso di sondare gli umori della Camera prima della sua riapertura fissata al giorno 20. Fu un convulso intrecciarsi di incontri e colloqui, al termine dei quali risultò che la maggioranza era larga, ma era per la neutralità. Alcuni ministri consigliarono a Salandra di non tirarsi indietro, ma il presidente del consiglio si schermì dicendo che la sua sconfitta sarebbe stata anche la sconfitta del re, e preferì rassegnare subito le sue dimissioni[39]. Questo fatto scatenò la reazione degli interventisti, e in tutto il paese, col concorso dei maggiori organi di stampa e degli intellettuali, primo fra tutti D'Annunzio, da più parti si levarono grida di tradimento. In quest'ottica il Parlamento appariva svuotato ed esautorato da ogni funzione rappresentativa, dal momento che si muoveva in controtendenza rispetto a quella che veniva - arbitrariamente - considerata la volontà nazionale. A corroborare tutto ciò venne l'ondata di manifestazioni interventiste che si sollevarono in tutto il paese non appena si ebbe notizia delle dimissioni del governo[38], e proprio quella sera, quando la notizia non era ancora trapelata, D'Annunzio stava arringando le folle di Roma, appellandosi alle «squadre», che infatti si formarono spontaneamente per prendere d'assalto l'abitazione di Giolitti. La polizia dovette circondare e proteggere l'abitazione per salvaguardare l'incolumità dello statista, il quale il giorno seguente ricevette in segno di solidarietà i biglietti da visita dei deputati. Il gesto non andava tanto all'uomo, quanto all'istituzione che rappresentava, e parallelamente la rivolta della piazza contro Giolitti, era in realtà una rivolta contro il Parlamento[39]. Il 13 maggio, con un infuocato comizio gridato da una finestra dell'albergo Regina in via Veneto, D'Annunzio incitò la folla a far giustizia sommaria del "mestatore di Dronero", «quel vecchio boia labbrone le cui calcagna di fuggiasco sanno la via di Berlino», che «tenta di strangolare la Patria con un capestro prussiano»[40][41].

Grande dimostrazione interventista in Piazza Nettuno a Bologna

A queste pressioni risposero manifestazioni neutraliste, specialmente in Toscana ed Emilia Romagna, dove si arrivò addirittura a scontri violenti, e a Torino, dove le manifestazioni neutraliste furono imponenti e portarono ad uno sciopero generale contro la guerra. Generalmente però le manifestazioni interventiste furono più numerose e interessarono in modo omogeneo tutta la penisola, interessando anche il sud Italia che fino ad allora era rimasto perlopiù passivo. Parma, Padova, Venezia, Genova, Milano, Catania, Palermo e molte altre città videro cortei di diverse migliaia di persone percorrere le strade e manifestare a favore della guerra, ma l'epicentro della "sollevazione" interventista fu Roma, dove il clima fu particolarmente arroventato[42]. Come in tutto il «radioso maggio», il protagonista della oralità bellicista a Roma fu D'Annunzio, mentre i giornali lanciavano grida d'allarme e drammatizzavano in modo ultimativo la scena, soprattutto su Il Popolo d'Italia e sulla Idea nazionale[34]. Spinte dalle forti campagne di agitazione interventista di Mussolini e dei gruppi nazionalisti, dall'arrivo di D'Annunzio nella capitale e dalla notizia delle dimissioni del governo, le dimostrazioni presero una piega nettamente eversiva. L'uso di toni scurrili e di una propensione all'aggressione fisica e verbale degli avversari, esasperata dagli appelli alla violenza degli interventisti che incitarono addirittura all'omicidio come arma politica, fece precipitare il clima politico in una sorta di guerra civile. Cominciò a farsi strada l'idea che contro i recalcitranti non vi fosse altro linguaggio utile che la violenza[43]. E a conferma di ciò si può citare l'asserzione del poeta vate Arringa al popolo di Roma in tumulto, la sera del XIII Maggio MCMXV: «Compagni, non è più tempo di parlare ma di fare; non è più tempo di concioni ma di azioni, e di azioni romane. Se considerato è come crimine l'incitare alla violenza i cittadini, io mi vanterò di questo crimine, io lo prenderò sopra me solo. [...] Ogni eccesso della forza è lecito, se vale ad impedire che la Patria si perda. Voi dovete impedire che un pugno di ruffiani e di frodatori riesca a imbrattare e a perdere l'Italia»[44].

Il resto dei discorsi di D'Annunzio a Roma saranno del medesimo stile, spingendosi addirittura all'invocazione squadrista ai giovani seguaci di non permettere ai parlamentari sospetti l'accesso alla Camera e - in un discorso del 17 maggio - aizzando le folle da un balcone del Campidoglio asserendo: «questo è il vero parlamento». Ma queste non furono libertà poetiche, ma toni liberamente intimidatori, adottati in quei giorni anche da un quotidiano politico molto vicino agli interessi finanziari e industriali, L'Idea Nazionale, che utilizzò uno stile ugualmente intimidatorio e potenzialmente omicida. La massima concentrazione di fuoco degli interventisti si ebbe tra il 13 e il 16 maggio, cioè fra le dimissioni di Salandra e la decisione del re di respingerle, durante i quali i quotidiani di estrema destra si permisero di premere sul sovrano, con toni che sfiorarono l'accusa di tradimento[45]. Le dimissioni del governo avevano creato un enorme vuoto di potere, il paese era all'oscuro degli avvenimenti che incalzavano, e soltanto dal Corriere della Sera apprese di non essere più alleato con le potenze centrali. Allora le squadre scesero per le strade e si impadronirono delle piazze. Lo sciopero generale chiamato dai socialisti riuscì solo a Torino, dove ci furono scontri con morti e feriti, ma D'Annunzio a Roma, Mussolini e Corridoni a Milano avevano in pugno le città[46]. Intanto gli atteggiamenti intimidatori nei confronti dei personaggi politici neutralisti raggiunsero il culmine. Il 14 maggio a Roma il ministro neutralista Pietro Bertolini, mentre transitava in tram per piazza Colonna, venne fatto segno a una violenta dimostrazione ostile da parte di elementi interventisti, i quali al grido di «Abbasso i ministri di Bülow!» aggredirono il ministro e tre ufficiali di cavalleria accorsi a difenderlo[47]. In quei giorni Luigi Facta fu bersaglio di ingiurie lanciategli per strada, Vito Antonio De Bellis fu schiaffeggiato e il senatore Enrico Ferri fu colpito al viso da un bicchiere di vetro. Gli interventisti ormai dominavano nelle piazze del centro delle città, e nonostante nei sobborghi tirasse un'altra aria, furono le piazze gli epicentri decisionali[48].

Nei quattro giorni in cui si svolsero le consultazioni per decidere chi incaricare della formazione del nuovo governo, la febbre interventista non smetteva di crescere. Subito dopo le dimissioni, Salandra e il re si incontrarono per decidere, ufficialmente, il successore meglio qualificato, e visto il rifiuto di Giolitti convennero d'interpellare Paolo Carcano o Giuseppe Marcora. Entrambi declinarono; il Parlamento non voleva l'intervento, ma non riusciva a incaricare un uomo disposto ad assumersi la responsabilità di rifiutarlo. Ed è proprio su questo che Salandra e il re contarono. In quei giorni si susseguirono consultazioni febbrili tra i diplomatici, mentre per le strade gli interventisti si facevano sentire a gran voce. Il 18, convinto ormai della inevitabilità dell'intervento, Giolitti lasciò la capitale, ritirandosi a Cavour e appartandosi dalla politica per tutto il periodo della guerra[40]. Intanto nella capitale il poeta vate gridava agli studenti romani: «Appiccate il fuoco! Siate incendiari intrepidi della grande Patria!» e i giovani non se lo fecero ripetere due volte. Ad un diplomatico tedesco Roma parve «Una città in preda al terrore», e fu proprio questo terrore che permise al re di respingere le dimissioni e richiamare Salandra al governo, dando con ciò via all'intervento[49].

Acclamazione alla Camera, il 20 maggio 1915, per il voto che conferisce pieni poteri al Governo in vista dell'entrata in guerra dell'Italia.

Il governo ratifica l'intervento[modifica | modifica wikitesto]

A chiudere il cerchio fu quindi l'iniziativa della monarchia, la quale, anziché prendere atto dell'orientamento della maggioranza parlamentare e incaricare Giolitti di formare un nuovo governo, diede nuovamente l'incarico a Salandra. Fu una sfida aperta al Parlamento, in linea con le pressioni eversive della piazza[50]. Alla notizia del ritorno di Salandra l'entusiasmo si alzò ai massimi livelli e dal balcone del Campidoglio, D'Annunzio librò sulla testa della folla la spada di Nino Bixio e teatralmente la baciò gridando: «L'onore della patria è salvo. L'Italia è liberata. Le nostre armi sono le nostre mani. Non temiamo il nostro destino ma vi andiamo incontro cantando. [...] Tutto il resto è infezione straniera propagata in Italia dall'abbietta giolitterìa...». Il 18 maggio Bülow compì un ultimo disperato tentativo di mediazione offrendo altre concessioni e mobilitando Papa Benedetto XV per caldeggiarle. Ma anche se avesse voluto, Sonnino non avrebbe avuto tempo per prenderle in considerazione[51].

Il 20 maggio il parlamento si riunì e Salandra chiese i pieni poteri. Sebbene la richiesta di questi poteri erano in realtà la richiesta del potere di dichiarare guerra, solo Turati si alzò per fare opposizione, il quale, in un commosso intervento che fu allo stesso tempo una dichiarazione d'impotenza, dichiarò: «noi restiamo socialisti [...] Faccia la borghesia italiana la sua guerra [...] nessuno sarà vincitore, tutti saranno vinti»[52]. I 300 giolittiani tacquero e al momento del voto si schierarono con il governo, dandogli una maggioranza di 407 voti contro 74. Fu l'abdicazione alla volontà della piazza, che a sua volta aveva abdicato alla volontà di una minoranza[53]. Il governo ratificò la decisione dell'intervento e il 24 maggio l'Italia entrò ufficialmente in guerra, in un vortice di situazioni che offrono molti argomenti per dare peso alla tesi del "colpo di Stato", inteso come violazione delle regole costituzionali o almeno, della volontà parlamentare da parte della monarchia. La scelta del re scavalcò queste regole e si mise dalla parte della sovversione violando la tradizione democratico-parlamentare che aveva presieduto alla vita dello stato liberale fino a quel momento. La cosa si sarebbe ripetuta poi nel 1922 di fronte all'azione sovversiva delle squadre d'azione mussoliniane, dove l'azione del re, di fatto legittimò i sediziosi e conferì l'incarico di governo allo stesso Mussolini che li capeggiava[50].

Le immediate reazioni politiche e popolari[modifica | modifica wikitesto]

Manifesto di chiamata alle armi per il regio esercito, emesso il 22 maggio 1915

All'alba del 24 maggio l'Italia diede inizio alle ostilità, e nel paese scese una calma improvvisa. L'agitazione delle settimane precedenti, dove l'Italia risultava spaccata in due e dove si videro ostilità tra i due schieramenti e tumulti di piazza che si svolsero in un clima molto simile alla guerra civile, tutto ad un tratto si placò. Ciò fu provocato non tanto a causa dei silenzi che la censura sulla stampa o le leggi di pubblica sicurezza imposero alla nazione in guerra, quanto proprio per il turbamento e i disorientamenti provocati in tutti i partiti dalla nuova realtà della guerra[54]. I neutralisti presero atto della propria sconfitta e l'ultima grande manifestazione di coloro che osteggiavano l'ingresso in guerra si svolse a Torino il 17 e 18 maggio, dopodiché le proteste contro l'intervento divennero sporadiche: qualche articolo di giornale, qualche sciopero di nessuna importanza, distribuzione di manifesti pacifisti e poco altro. Il partito socialista espresse fin da subito la sua moderazione adottando ufficialmente la formula del «non aderire né sabotare», e i suoi principali esponenti, Claudio Treves e Filippo Turati, offrirono riservatamente al presidente del consiglio la loro collaborazione per avvicinare le masse alla causa nazionale. I cattolici si dichiararono che si sarebbero comportati da cittadini obbedienti alle leggi e moltissimi di loro, infatti, dimostrarono in vari modi di partecipare patriotticamente alla guerra. I più colpiti e disorientati apparvero i giolittiani, che mantennero un atteggiamento prudente e riservato, che però non impedì al loro leader di pronunciare il 5 luglio, un patriottico discorso di devozione al re e di incondizionato appoggio al governo[55].

23 maggio: L'Avanti! riporta in prima pagina la notizia della mobilitazione generale

Non stupisce dunque se nei ricordi del presidente Salandra, le giornate di fine maggio poterono essere definite di «idillio nazionale, in molta parte sincero, in qualche parte imposto e subìto». Avendo escluso il ricorso a forme di opposizione violenta, i neutralisti tornarono in campo spinti da sentimenti patriottici o di mera opportunità politica, sostenuti tra l'altro dall'ottimista previsione di un conflitto breve: in tal caso sarebbe stato poco conveniente trovarsi dalla parte sbagliata. Nazionalisti, cattolici, socialisti, salandrini, giolittiani scelsero quindi una linea di condotta basata sulla necessità politica, ma nelle città e nelle campagne, le larghe masse scarsamente politicizzate rimasero sostanzialmente estranee al dibattito, mantenendo un atteggiamento indifferente - talvolta ostile - verso la guerra in atto. I rapporti che i prefetti inviarono al governo durante le «radiose giornate» di maggio confermarono l'ampiezza delle manifestazioni interventiste svoltesi in molte città, ma al tempo stesso ne annotarono i grossi limiti, sia perché le tendenze neutraliste risultarono assolutamente prevalenti in Toscana, Piemonte, in alcune provincie lombarde e nell'Emilia-Romagna (Parma esclusa), sia perché alle manifestazioni partecipò spesso un numero esiguo di persone, in gran parte giovani studenti[56]. Si poté inoltre constatare che in molte località del Mezzogiorno, le agitazioni interventiste furono spinte soprattutto dalla volontà di non far cadere il governo per non far tornare al potere Giolitti; tutto ciò in seno ad una determinata volontà politica interna che andava contro un'altra realtà politica interna che si opponeva al sistema giolittiano, infatti era dal 1898 che i ministeri susseguitisi in Italia non erano stati presieduti da un politico meridionale, e Salandra era il primo da molto tempo[57].

24 maggio: la prima pagina de Il Popolo d'Italia che annuncia la dichiarazione di guerra

Fondamentalmente il consenso popolare all'intervento, che fu certamente notevole in molti casi, mantenne però un atteggiamento di prudente attesa e di indifferenza, anche nel mondo cittadino. La città di Firenze per esempio dimostrò uno scarso entusiasmo sia durante le «radiose giornate», sia dopo la notizia dell'intervento, mentre molto più singolare fu l'atteggiamento che si riscontrò a Roma, la città che più di tutte si era distinta durante la campagna interventista. A metà maggio Roma era apparsa tutta protesa verso la guerra, eppure pochi giorni più tardi, un ufficiale francese nella capitale, inviò un rapporto sulle condizioni dello spirito pubblico a Roma, nella quale scrisse che la popolazione pareva disinteressata e senza l'atteggiamento patriottico e d'orgoglio che ci sarebbe aspettati nella capitale di un paese in guerra[58]. Certamente però, il movimento delle «radiose giornate» aveva coinvolto solo le minoranze e fin dal primo istante di guerra, dunque, nelle città come nelle campagne si sarebbe posto per il governo il problema di mobilitare le masse alla causa nazionale. La guerra europea che si stava profilando infatti non somigliava per niente alle campagne del passato, affidate alla perizia di eserciti professionali, ma richiedeva al contrario la partecipazione di tutti i cittadini, uomini e donne, sia negli eserciti che contavano ora milioni di uomini, sia nelle officine e in tutti i campi produttivi del paese. La guerra europea sarebbe stata quindi una guerra degli italiani per gli italiani, una guerra totale, di massa. Da questo punto di vista l'Italia appariva ancora molto impreparata rispetto alle grandi potenze europee; infatti le masse, in Italia, avevano iniziato ad essere presenti da poco tempo nella realtà politica e sociale del paese[59]. Rapide trasformazioni si erano succedute nell'ambiente politico italiano; i votanti erano passati da 1.900.000 delle elezioni del 1909 ai 5.100.000 delle elezioni del 1913. La partecipazione politica rimase però limitata ad un numero assai ristretto di persone, mentre più ampia era la partecipazione sindacale, dove la Confederazione Generale del Lavoro raccoglieva circa 250.000 iscritti, contro gli appena 1.500 iscritti che il Partito socialista raccoglieva a Milano. Nel 1915 la trasformazione dell'Italia in una vera e propria società di massa era già cominciato, ma nella grande maggioranza degli esponenti politici mancava ancora la capacità di padroneggiare e forse anche di immaginare le nuove tecniche di governo imposte dal nuovo tipo di società. Rappresentativo fu l'atteggiamento di Salandra e degli uomini a lui vicini, di non voler valutare l'importanza di una mobilitazione delle masse, spinto soprattutto dalla vecchia educazione politica di quei dirigenti, che li poneva in posizione di disagio e diffidenza nei confronti delle masse[60].

Accettare o addirittura promuovere il nuovo ruolo delle masse, avrebbe significato per questi dirigenti abbandonare le concezioni politiche in cui credevano, e grazie alle quali, in ultima analisi, avevano favorito l'intervento. Salandra dal canto suo non voleva accettare l'aiuto dei socialisti per non trovarsi in mezzo ad una coalizione di sinistra. Le forze conservatrici che lo sorreggevano avevano voluto l'intervento anche e soprattutto per sbarazzarsi dei socialisti e per allontanare definitivamente il potere da Giolitti, che della sua politica della "mano tesa" si era avvicinato alla sinistra e alle masse popolari. Per Salandra la vittoria sarebbe potuta avvenire senza la partecipazione dei socialisti, con i quali non voleva spartire gli onori di un successo bellico, che in quel primo periodo pareva poter durare solo pochi mesi. La formula del «non aderire né sabotare» bastava al governo, e anzi corrispondeva perfettamente al disegno politico in atto; i socialisti non diventavano né i nemici né gli amici ai quali aprire un credito[61]. Dominava ovunque un'idea falsa di ciò che la guerra sarebbe potuta essere: non soltanto fra gli uomini in strada, ma anche fra coloro che avevano in mano la responsabilità delle decisioni, nei quali regnava l'idea di «una grande Libia»[N 2]. Ciò comportò diversi errori iniziali da parte del governo, come il mancato acquisto di adeguate forniture invernali, dovuti alle incomprensioni verso coloro che a maggio parlavano di guerra «dura e lunga», che si erano dissolte nel clima di superficiale ottimismo delle «radiose giornate»[62]. Come ricordò Gioacchino Volpe: «Si aveva della guerra, in generale, solo quel vaghissimo sentore che si può avere di cose non conosciute, non sentite», e come riportò Otto Cima: «Molti cittadini, nel maggio, avevano esposto il tricolore, con l'intenzione di lasciarlo sui balconi fino al giorno dell'imminente vittoria. [...] In agosto sventolavano ancora una quantità di bandiere divenute irriconoscibili: i verdi si erano ingialliti, i rossi sbiaditi, i bianchi anneriti»[63].

Note[modifica | modifica wikitesto]

Esplicative[modifica | modifica wikitesto]

  1. ^ È doveroso ricordare che il leader del gruppo parlamentare socialista riformista Leonida Bissolati, dopo la dichiarazione di neutralità, scrisse al suo vice Ivanoe Bonomi che «bisogna preparare l'anima del proletariato italiano alla guerra», a riprova che per i riformisti la neutralità iniziale non fu altro che un atteggiamento tattico per scongiurare l'ipotesi di entrata in guerra a fianco delle potenze centrali. Vedi: Isnenghi-Rochat, p. 106
  2. ^ Questa espressione fa riferimento alla fortunata campagna militare che aveva visto l'Italia ottenere l'annessione della Tripolitania e della Cirenaica, e occupare militarmente il Dodecaneso a seguito della guerra italo-turca. In quella occasione in Italia fecero la loro comparsa, per la prima volta in modo diffuso, espressioni retoriche e di esaltazione patriottica propagandate dalla stampa, dalle canzoni e dai movimenti nazionalisti, futuristi e sindacalisti, che vedevano nella guerra la possibilità di acquisire in ambito internazionale grandezza e autorevolezza. In quell'occasione fu scritta la canzone «Tripoli bel suol d'amore», che racchiudeva e sintetizzava l'esaltazione che caratterizzò la preparazione dell'opinione pubblica italiana alla guerra contro l'Impero ottomano, periodo molto simile concettualmente al «Radioso maggio» del 1915. Vedi: Ansaldo, pp. 311-312

Bibliografiche[modifica | modifica wikitesto]

  1. ^ Gibelli, p. 64.
  2. ^ Gibelli, p. 65.
  3. ^ Isnenghi-Rochat, p. 102.
  4. ^ Isnenghi-Rochat, pp. 103-104.
  5. ^ Isnenghi-Rochat, p. 113.
  6. ^ Isnenghi-Rochat, p. 125.
  7. ^ Isnenghi-Rochat, pp. 107-108.
  8. ^ Montanelli, pp. 178-179.
  9. ^ a b Isnenghi-Rochat, p. 138.
  10. ^ Mario Silvestri, Isonzo 1917, Bergamo, Bur, 2007, pp. 16-17, ISBN 978-88-17-12719-6.
  11. ^ Mario Silvestri, Caporetto, una battaglia e un enigma, Bergamo, Bur, 2006, pp. 5-6, ISBN 88-17-10711-5.
  12. ^ Biagioli-Severini, p. 94.
  13. ^ a b Biagioli-Severini, p. 95.
  14. ^ Isnenghi-Rochat, pp. 105-106.
  15. ^ Isnenghi-Rochat, pp. 120-121.
  16. ^ a b Isnenghi, p. 104.
  17. ^ Isnenghi, p. 105.
  18. ^ Isnenghi-Rochat, pp. 124-125.
  19. ^ Isnenghi-Rochat, p. 140.
  20. ^ Ex cancelliere, incaricato di una missione diplomatica a Roma.
  21. ^ Citazione presa da F. Turati e A. Kuliscioff, Carteggio, 9 voll., raccolto da A. Schiavi, a cura di F. Pedone, vol. IV, 1915-1918. La grande guerra e la rivoluzione, t. I, Torino, Einaudi, 1977. Vedi: Isnenghi-Rochat, p. 141.
  22. ^ Isnenghi-Rochat, pp. 141-142.
  23. ^ Isnenghi-Rochat, p. 142.
  24. ^ a b Isnenghi-Rochat, p. 143.
  25. ^ Isnenghi-Rochat, p. 139.
  26. ^ Gibelli, pp. 55-57.
  27. ^ Gibelli, p. 59.
  28. ^ Montanelli, p. 179.
  29. ^ Gibelli, p. 62.
  30. ^ a b Montanelli, p. 180.
  31. ^ Gibelli, p. 63.
  32. ^ Isnenghi, p. 107.
  33. ^ Isnenghi, pp. 106-108.
  34. ^ a b c d Isnenghi-Rochat, p. 144.
  35. ^ Montanelli, pp. 181-182.
  36. ^ a b Montanelli, p. 183.
  37. ^ Paolo Mieli, L'indignazione contro Giolitti e quella di oggi, su archiviostorico.corriere.it, corriere.it, 2 febbraio 2003. URL consultato il 12 ottobre 2015 (archiviato dall'url originale il 1º gennaio 2016).
  38. ^ a b Gibelli, pp. 65-66.
  39. ^ a b Montanelli, p. 184.
  40. ^ a b Emilio Gentile, Giolitti, Giovanni, su treccani.it. URL consultato il 12 ottobre 2015.
  41. ^ Ansaldo, p. 315.
  42. ^ Gibelli, pp. 68-69.
  43. ^ Gibelli, pp. 70-71.
  44. ^ In G. D'Annunzio, Per la grande Italia, cit.; pp. 73-74. Vedi: Isnenghi-Rochat, pp. 144-145.
  45. ^ Isnenghi-Rochat, p. 145.
  46. ^ Montanelli, pp. 184-185.
  47. ^ Ansaldo, p. 313.
  48. ^ Ansaldo, p. 314.
  49. ^ Montanelli, pp. 188-189.
  50. ^ a b Gibelli, pp. 72-73.
  51. ^ Montanelli, pp. 189-190.
  52. ^ Isnenghi-Rochat, p. 111.
  53. ^ Montanelli, p. 190.
  54. ^ Melograni, pp. 3-4.
  55. ^ Melograni, p. 4.
  56. ^ Melograni, pp. 4-5.
  57. ^ Melograni, p. 6.
  58. ^ Melograni, pp. 6-7.
  59. ^ Melograni, pp. 7-8.
  60. ^ Melograni, p. 8.
  61. ^ Melograni, p. 9.
  62. ^ Melograni, pp. 10-11.
  63. ^ Citazione prese da: G. Volpe, Il popolo italiano tra la pace e la guerra (1914-1915), Milano, 1940, p. 265 e O. Cima, Milano durante la guerra, noterelle in agrodolce di un Ambrosiano, Milano s.d., pp. 63-64. Vedi: Melograni, p. 12.

Bibliografia[modifica | modifica wikitesto]

Voci correlate[modifica | modifica wikitesto]

Collegamenti esterni[modifica | modifica wikitesto]