Liside (dialogo)

Liside
Titolo originaleΛύσις
Altri titoliSull'amicizia
Liside, ritratto nel lekythos funebre del figlio Timokleides (IV secolo a.C.).
AutorePlatone
1ª ed. originaleIV secolo a.C.
Generedialogo
Sottogenerefilosofico
Lingua originalegreco antico
PersonaggiSocrate, Liside, Ctesippo, Menesseno, Ippotale
SerieDialoghi platonici, V tetralogia

Il Liside (in greco antico: Λύσις?) non è fra i più noti dialoghi di Platone, ma è probabilmente l'unico in cui viene messo in luce il concetto platonico di amicizia. In esso il filosofo, attraverso le parole del maestro Socrate, svolge una peculiare e cavillosa indagine per comprendere chi possa essere considerato amico e chi no, anche in base ad ipotesi formulate precedentemente da altri filosofi (sebbene non esplicitamente menzionati).

Amore e amicizia[modifica | modifica wikitesto]

Socrate sta percorrendo la strada che porta dall'Accademia al Liceo, quando viene fermato da Ippotale, Ctesippo e altri giovani, i quali lo invitano ad unirsi a loro ed accompagnarli al ginnasio, dove tiene lezione un tale Micco (sofista amico di Socrate, a noi sconosciuto) e potranno discutere in tranquillità. Prima di entrare, tuttavia, Socrate, che per un dono divino è in grado di riconoscere a prima vista un innamorato, vuole sapere da Ippotale chi, secondo lui, è il più bello tra i suoi compagni. Ippotale è però in imbarazzo, ed è Ctesippo a rispondere in sua vece, lamentando le eccessive lodi che egli canta in continuazione per il giovane Liside (203a-204d). A queste parole, Socrate rivolge a Ippotale un monito: non è bene lodare un amato prima di averlo conquistato, poiché in questo modo non si fa altro che insuperbirlo e renderlo più ostile alle attenzioni dell'innamorato; viceversa, bisogna lodare qualcuno solo dopo averne vinto i favori, poiché le lodi dell'amato suoneranno come un encomio per l'innamorato che è stato in grado di trarlo a sé (205e-206a).

Socrate, a questo punto, è curioso di incontrare questo giovane, e il suo desiderio viene esaudito quando, insieme a Ctesippo, entra nel ginnasio, dove Liside si distingue tra gli altri fanciulli per la sua eccezionale bellezza. Qui il filosofo viene raggiunto da Menesseno e da altri ragazzi, richiamando l'attenzione dello stesso Liside, che si unisce al gruppo.[1] Socrate, vedendo tanti fanciulli e giovani attorno a lui, inizia ad interrogarli, ma ben presto finisce col rivolgere le proprie domande a Liside, così da metterlo alla prova e valutarne la nobiltà d'animo (207b-c).

Socrate inizia domandando a Liside se i suoi genitori lo amino, e alla risposta affermativa del fanciullo chiede quali sarebbero i segni di questo amore. Sembra infatti che Liside non disponga di grandi libertà, poiché non gli è consentito guidare nessun carro (sia esso un carro da corsa o uno trainato da muli), e nemmeno può “guidare” se stesso, ma deve sottostare alle decisioni del pedagogo: ma allora, domanda Socrate, come è possibile che i suoi genitori lo amino se non gli permettono di fare niente, ma anzi per le loro necessità si affidano a persone prezzolate o a schiavi? Sembrerebbe infatti che essi abbiano più fiducia dei loro schiavi che non del loro figlio, al quale, anzi, impongono molti padroni (207d-208e). In realtà, come lo stesso Socrate non tarda a dimostrare, a Liside non è consentito fare certe cose e nemmeno decidere per se stesso in quanto non ne è ancora in grado. Ogni compito viene infatti affidato a chi è saggio e competente in materia, e così a guidare i cavalli da corsa viene scelto un auriga, la città sceglie come propria guida le persone migliori, e anche Liside, il giorno che sarà sapiente, verrà chiamato ad occuparsi dei beni di famiglia e dei suoi genitori, che gli affideranno le loro stesse persone. Chi è saggio e sapiente, dunque, ha molti amici, i quali lo amano proprio perché è sapiente e di conseguenza risulta utile e buono agli occhi di tutta la comunità (210a-d).[2]

La definizione dell'amicizia[modifica | modifica wikitesto]

Johann Friedrich Greuter, Socrate e i suoi studenti, XVII secolo.

Terminata la discussione con Liside, fa il suo ritorno Menesseno, che si era allontanato perché chiamato dal maestro. Liside domanda a Socrate di rendere partecipe l'assente del ragionamento appena concluso, ma il filosofo declina, preferendo discutere di un nuovo argomento, lasciando che sia Liside, in un secondo momento, a riassumere i loro discorsi precedenti. Si entra così nel cuore del dialogo, che ha per oggetto la ricerca di una definizione per l'amicizia. L'amicizia, afferma infatti Socrate, è uno dei beni più belli che si possa desiderare, e lo stesso filosofo confessa di preferire un amico a qualsiasi ricchezza o bene materiale (211d-212a); tuttavia, Socrate ammette anche di non aver mai capito come una persona diventi amica di un'altra, e per questo motivo chiede l'aiuto di Menesseno, il quale, essendo amico di Liside, sembra esperto in materia.

La prima ipotesi di Menesseno consiste nell'identificare l'amicizia con l'amore: se qualcuno ama una persona, questa persona dovrà necessariamente ricambiare i sentimenti dell'altro. Questa tesi viene però liquidata rapidamente da Socrate, poiché sono noti a tutti i casi di innamorati non corrisposti dalle persone amate, le quali talvolta possono addirittura provare nei loro confronti odio o disprezzo: se fosse vero ciò, si dovrebbe concludere che si può essere amici di chi non è nostro amico, e quindi si può essere amico di un nemico, o viceversa essere nemico di un amico (212b-213d).

Socrate decide allora di affrontare la questione in modo diverso, dando tregua a Menesseno e chiamando in causa Liside. Citando Omero, secondo il quale «il dio conduce sempre il simile verso il simile», Socrate ipotizza che un individuo può essere amico solo di un altro a lui simile: i giusti infatti non sono amici degli ingiusti ma di altri giusti, e chi subisce ingiustizie non ama chi le compie; i malvagi, d'altra parte, non sono amici di altri malvagi, ma questo si spiega con il fatto che essi sono incostanti e mai identici a se stessi (213e-214d). Tuttavia, che utilità può trarre un individuo da qualcuno che gli è simile e che quindi ha le sue stesse capacità? Un uomo buono, proprio perché buono, potrebbe bastare a se stesso, senza aver bisogno di rivolgersi a un altro uomo buono – e non avendo bisogno di nulla, non aspirerebbe nemmeno ad avere un amico. Forse allora, ipotizza Socrate, aveva ragione Esiodo, secondo il quale ognuno è ostile al proprio simile: il vasaio è nemico degli altri vasai perché ne teme la concorrenza e ne prova invidia, mentre al contrario il povero sarà amico del ricco e il debole del forte, così da averne aiuto. Anche in natura, continua Socrate, gli opposti si attraggono e si nutrono l'uno dell'altro: così il secco cerca l'umido, il freddo il caldo, il vuoto il pieno e via dicendo – ma in questo modo si finisce ancora una volta con l'affermare che il giusto è amico dell'ingiusto, ritornando alla situazione scartata in precedenza (215c-216b).

«Dunque né il simile è amico del simile né il contrario è amico del contrario»: Socrate a questo punto tenta una nuova strada, ricordando a Liside che oltre a “buono” e “cattivo” esiste anche una via intermedia tra i due, ovvero tutto ciò che non è né buono né cattivo. Chi aspira al bene e al bello non è in sé né buono né cattivo, poiché se possedesse già in sé il bene non desidererebbe di possederlo, e così anche una persona sana non è amica del medico, mentre lo è il malato, il quale ha in sé un male e non è in grado di eliminarlo da solo. Allo stesso modo, amico del buono non può essere un altro buono (poiché gli sarebbe simile) né un cattivo (che gli è opposto), ma uno che non è né buono né cattivo (216c-218c). Sembra dunque che la discussione sia giunta a conclusione, e che si sia riusciti a definire chi è l'amico – ma così non è, e Socrate non tarda a dimostrarlo. Si è detto infatti che il malato è amico del medico per via della malattia, ma la malattia, causa dell'amicizia tra i due, è un male e quindi è nemica: ne risulta che ciò che non è né buono né cattivo diventa amico del bene a causa di un male, che gli è nemico. Oppure, forse, continua Socrate, malato e medico sono amici per via della medicina, che è una cosa amica; ma anche questa ipotesi deve essere accantonata, poiché i farmaci sono solo un mezzo e vengono scelti in vista della salute (219c-220b).[3] Tuttavia, osserva ancora Socrate, gli uomini scelgono il bene perché vi è il male, e se il male non esistesse non avrebbe senso ricercare il bene; ma se ciò è vero, si nega quanto appena affermato, e cioè che l'amicizia non mira a cose utili, e inoltre si tornerebbe ad affermare che il giusto è amico dell'ingiusto.

Socrate tenta allora una nuova ed estrema strada per trovare la definizione di amicizia, andando ad indagare sulla differenza di significato tra “affine” e “simile”; a questo punto, però, la discussione viene interrotta dai pedagoghi di Menesseno e Liside, i quali – un po' ebbri – insistono per riportare a casa i due ragazzi (223a-b). Il dialogo termina dunque con un nulla di fatto rivelandosi aporetico.[2]

Note[modifica | modifica wikitesto]

  1. ^ Ctesippo e Menesseno sono entrambi allievi di Socrate, citati anche nel Fedone; inoltre, Ctesippo è tra i personaggi dell’Eutidemo, mentre il secondo compare come interlocutore del filosofo nel dialogo che porta il suo nome.
  2. ^ a b Platone, Tutte le opere, a cura di E.V. Maltese, Roma 2009, pp. 1229-1231.
  3. ^ Socrate fa l'esempio di un padre che cerca disperatamente un antidoto per il veleno ingerito dal figlio amato: in questo caso, se fosse vero ciò che è stato detto, egli terrebbe in grandissima considerazione l'antidoto, e così pure il recipiente che lo contiene, e li amerebbe più del suo stesso figlio poiché essi sono in grado di salvarlo.

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