Giovanni Talaia

Giovanni Talaia
patriarca della Chiesa ortodossa
 
Incarichi ricoperti
 
NatoV secolo
Elevato patriarca482
Decedutodopo il 496
 

Giovanni Talaia, o anche Giovanni I di Alessandria[1] (V secolo – dopo il 496), è stato patriarca greco-ortodosso di Alessandria nel 482.

Biografia[modifica | modifica wikitesto]

Giovanni Talaia era monaco a Canopo, vicino ad Alessandria d'Egitto e sotto il patriarca di Alessandria Timoteo III Salofaciolo divenne amministratore (megas oikonomos) della diocesi e un noto predicatore. Dopo il reinsediamento di Salofaciolo (settembre 477),[2] fu inviato più volte dal patriarca presso l'imperatore Zenone. Secondo gli storici egli si comportava a Costantinopoli come fosse lui stesso il patriarca, godette dei favori dell'imperatore e divenne amico dell'amministratore del palazzo imperiale Illo, ma litigò aspramente con Acacio patriarca di Costantinopoli. Alla sua seconda visita a Costantinopoli, egli ottenne un editto imperiale che lo nominava successore di Timoteo III Salofaciolo.

Dopo la morte di quest'ultimo venne eletto patriarca di Alessandria dalla fazione dei calcedoniani, mentre gli anti-calcedoniani nominarono l'esiliato Pietro Mongo. Talaia mancò di inviare l'usuale annuncio della sua elezione ad Acacio, che se ne lamentò con l'imperatore, il quale mandò in esilio Talaia e al suo posto scelse lo stesso Mongo, che aveva sottoscritto l'Enotico (Henotikon = strumento di unione) e quindi era candidabile.[3]

Giovanni si recò a Roma, ove fu ricevuto da papa Simplicio, che intercedette per lui presso Acacio. Acacio ribatté, che lui, per ordine dell'imperatore, stava in comunione con Mongo, che il Talaia non riconosceva, il che portò ad una dura risposta di Simplicio. Anche il successore di Simplicio, papa Felice III sostenne Talaia e chiese conto ad Acacio per determinati rimproveri, che Talaia aveva portato contro di lui. Con un sinodo a Roma Felice scomunicò Acacio a causa del suo continuo sostegno a Pietro Mongo e informò Zenone di questa decisione sinodale, ma non ottenne nulla.

Talaia rimase a Roma. Dopo la morte di Zenone egli si recò a Costantinopoli dal suo successore Anastasio per perorare la sua causa, dove egli contava sul fatto di averlo aiutato in occasione di un naufragio ad Alessandria. Ma quando Anastasio apprese dell'arrivo di Talaia, diede disposizione che fosse bandito e Talaia se ne tornò a Roma.

Anche il successore di papa Felice, papa Gelasio I, sostenne Talaia e questi ricevette il vescovado di Nola in Campania ove morì dopo alcuni anni trascorsi in pace. Durante quest'ultimo periodo egli scrisse un'Apologia di Gelasio, nella quale condannava il pelagianesimo, Pelagio, Celestio e Giuliano di Eclano.

Talaia fu, sia sotto Felice come sotto Gelasio, un influente consigliere della Curia, che deve aver giocato un ruolo fondamentale nella controversia sull'Enotico e sullo scisma acaciano.

Note[modifica | modifica wikitesto]

  1. ^ Questo numerale non è accettato dalla Chiesa ortodossa copta, che non lo riconobbe come Patriarca di Alessandria d'Egitto, ritenendo che tale titolo spettasse a Pietro Mongo. Per la chiesa copta quindi il numerale I spetta al patriarca Giovanni, che ricoprì tale carica dal 496 al 505.
  2. ^ Timoteo III Salofaciolo fu nominato Patriarca di Alessandria nel 460 dalle autorità bizantine al posto di Timoteo II Eluro, deposto ed esiliato a causa delle sue simpatie monofisite nel 457. Nel 475, con l'ascesa al trono bizantino di Basilisco, simpatizzante monofisita, il Salofaciolo fu destituito e al suo posto nominato Timoteo II Eluro. Il suo patriarcato però cadde quando, tornato imperatore Zenone, nel 477 Eluro fu a sua volta destituito e il patriarcato tornò a Timoteo III Salofaciolo.
  3. ^ L'Enotico era un documento promulgato dall'imperatore bizantino Zenone il 28 luglio 482 dietro suggerimento del patriarca di Costantinopoli Acacio per porre fine alle controversie cristologiche che avevano diviso la cristianità in "calcedoniani" (ovvero Roma e Costantinopoli, che avevano sottoscritto i decreti del Concilio di Calcedonia) e "monofisiti", ovvero le chiese dissidenti di Antiochia e Alessandria d'Egitto, che non avevano accettato le conclusioni del concilio.

Collegamenti esterni[modifica | modifica wikitesto]