Genio maligno

Il Genio maligno è l'estremizzazione limite del "dubbio metodico", un'ipotesi che Cartesio chiama "dubbio iperbolico". Un dubbio, cioè che, come la figura retorica dell'iperbole è un'ipotesi esagerata, eccessiva ma che anche, come la figura geometrica dell'iperbole, viene esteso all'infinito così che sia possibile dubitare di tutto.

Il "dubbio iperbolico"[modifica | modifica wikitesto]

Prima edizione del "Discorso sul metodo" pubblicata da Ian Maire nel 1637

Nel suo Discorso sul metodo Cartesio descrive il cammino che lo porterà a conoscere una verità di per sé evidente cioè chiara e distinta, tale da non dover essere ulteriormente dimostrata.

«...non prendere mai niente per vero, se non ciò che io avessi chiaramente riconosciuto come tale; ovvero, evitare accuratamente la fretta e il pregiudizio, e di non comprendere nel mio giudizio niente di più di quello che fosse presentato alla mia mente così chiaramente e distintamente da escludere ogni possibilità di dubbio».[1]»

In un primo tempo egli pensa che questa verità indubitabile sia costituita da quella scienza matematica dalla quale egli ha tratto le stesse regole del metodo ma, in effetti, la conoscenza matematica solo apparentemente può sfuggire al dubbio. Infatti, benché sembri che non ci possa essere nulla di più sicuro e di più certo delle verità matematiche, non si può neppure escludere, con un dubbio "iperbolico", che un "genio maligno", supremamente potente, si "diverta", per la sua "malignità", a ingannarci ogni volta che effettuiamo un calcolo matematico.

Il Genio maligno[modifica | modifica wikitesto]

Frontespizio di un'edizione in latino delle Meditationes de prima philosophia

Il Genio maligno viene per la prima volta considerato da Cartesio nelle Meditationes de prima philosophia (1641) dove scrive che non si tratta di Dio (sarebbe autocontradditorio pensare un Dio perfetto che inganni) ma di un "genio" (che non è perfetto e quindi può essere cattivo) ipotizzato provvisoriamente come reale per necessità metodologica[2], cioè sino a quando si dimostrerà l'esistenza di Dio e si potranno respingere «tutti i dubbi dei giorni passati come iperbolici e ridicoli»[3] ma fino a quel momento egli dubiterà di tutto, sospendendo ogni giudizio:

«Io supporrò, dunque, che vi sia, non già un vero Dio, che è fonte sovrana di Verità, ma un certo cattivo genio [genium aliquem malignum], non meno astuto e ingannatore che possente, che abbia impiegato tutta la sua industria ad ingannarmi. Io penserò che il cielo, l'aria, la terra, i colori, le figure, i suoni e tutte le cose esterne che vediamo, non siano che illusioni e inganni, di cui egli si serve per sorprendere la mia credulità. Considererò me stesso come privo affatto di mani, di occhi, di carne, di sangue, come non avente alcun senso, pur credendo falsamente di aver tutte queste cose. Io resterò ostinatamente attaccato a questo pensiero; se, con questo mezzo, non è in mio potere di pervenire alla conoscenza di verità alcuna, almeno è in mio potere di sospendere il mio giudizio. Ecco perché baderò accuratamente a non accogliere alcuna falsità, e preparerò così bene il mio spirito a tutte le astuzie di questo grande ingannatore, che, per potente ed astuto ch'egli sia, non mi potrà mai imporre nulla.[4]»

La verità evidente del "cogito"[modifica | modifica wikitesto]

Nel Discorso sul metodo (1637) Cartesio grazie al dubbio scopre, nel quarto capoverso, il "primo principio" fondamento di tutto il suo pensiero: «io penso, dunque sono» («je pense, donc je suis») ossia, nella formulazione latina più precisa: «Ego cogito, ergo sum, sive existo», («Io penso, io sono, ossia esisto»)[5]

Questo primo principio è indubitabilmente vero: se, infatti, noi ne dubitassimo non faremmo altro che pensare poiché il dubbio «è un caso particolare del pensiero»[6] che riconferma il "cogito ergo sum" (se dubito, penso e se penso, sono, esisto). Ma se penso, questo pensiero deve pur far capo a qualcosa cioè a me stesso: se penso, devo pur essere qualcosa. Un'affermazione questa così evidente che nessun scetticismo e neppure l'ipotetico "genio maligno" può scalfire:

«Non v’è dunque dubbio che io esisto, s’egli m’inganna; e m’inganni fin che vorrà, egli non saprà mai fare che io non sia nulla, fino a che penserò di essere qualche cosa.[7]»

Il "dubbio iperbolico" coinvolge le idee[modifica | modifica wikitesto]

Ma se il genio maligno non mi può più ingannare sul pensare potrebbe continuare a farlo sul contenuto del pensiero.[8] [9]

Per Cartesio dunque il genio potrebbe continuare l'inganno sulle idee, di cui egli distingue tre categorie:

  • le idee "innate" che sono quelle sempre presenti dov'è presente il pensiero. Questo tipo di innatismo è virtuale, cioè le idee innate ci sono veramente quando c'è la possibilità del pensiero di pensarle (il feto non ha idee innate);
  • le idee "avventizie" sono quelle delle cose esterne, che vengono dal di fuori (ad ventum);
  • le idee "fittizie", che lui chiama "fattizie", quelle delle cose inventate, che ci formuliamo da soli.

L'esistenza di Dio[modifica | modifica wikitesto]

Su tutte queste idee il genio maligno potrebbe continuare ad ingannare; se si riesce però a dimostrare che non esiste un genio maligno ma, al contrario, che c'è un Dio perfetto, quindi buono, e quindi veridico, che dice la verità, potrò essere sicuro che non solo il pensare ma anche il contenuto del pensare, le idee, siano vere.

«Se non sapessimo che quanto vi è in noi di reale e vero viene da un essere perfetto e infinito, per chiare e distinte che fossero le nostre idee, non avremmo nessuna ragione di essere certi che posseggono la perfezione di essere vere[10]»

L'esistenza di Dio, dimostrata attraverso le prove tradizionali, connota la filosofia cartesiana di un aspetto religioso realizzando una sorta di tomistica armonica fusione di ragione e fede.

Questa duplicità del suo pensiero ha aperto la strada a interpretazioni della filosofia cartesiana tali per cui da un lato viene affermata la possibilità di conoscere la verità garantendola sull'esistenza di Dio, dall'altro l'uomo con il metodo è in grado di raggiungere in piena autonomia razionale verità evidenti, chiare e distinte.[11]

Note[modifica | modifica wikitesto]

  1. ^ Cartesio, "Discorso sul metodo" a cura di A.Carlini, Bari 1963 pp.54-56
  2. ^ Sergio Marini, Il tema della libertà in Cartesio e in Hobbes, EDUCatt - Ente per il diritto allo studio universitario dell'Università Cattolica, 2014, p.14
  3. ^ Sesta Meditazione, R. Descartes, Opere, Laterza, Bari, 1967, vol. I
  4. ^ R. Descartes, op. cit., vol. I, pagg. 199-204
  5. ^ La più nota formulazione «cogito, ergo sum» appare nel (1644) in Principia philosophiae 1, 7 e 10
  6. ^ J. Cottingham, Cartesio, ed. Il Mulino, 1991 p. 55
  7. ^ Meditazioni metafisiche, in Opere, II, 24
  8. ^ Secondo Benedetto Croce qui Cartesio commette un errore linguistico. Egli crede che il pensare possa essere distinto dalle idee che il pensiero pensa. Ma questa distinzione è puramente nominale, verbale, perché in effetti non esiste pensare senza idee né idee senza pensare. Pensare è il complesso delle idee: ciò che esiste sono sempre e soltanto le idee. Quando qualcuno ci chiede a cosa stai pensando, rispondere: «A niente», non ha senso; provateci a pensare niente; avrebbe senso solo se veramente il pensare fosse distinto dalle idee. Quindi se il genio maligno non mi può ingannare sul pensare non potrebbe farlo neppure sulle idee che non possiamo separare dal pensare così come questo è connesso all'agire (Benedetto Croce, "Logica come scienza del concetto puro", Bari 1988).
  9. ^ Gustavo Bontadini, Studi sull'idealismo, Vita e Pensiero, 1995 p.21
  10. ^ Cartesio, Discorso sul metodo a cura di G. De Lucia, Armando Editore, 1999 p.120
  11. ^ Sapere.it alla voce Cartesio, Renato

Bibliografia[modifica | modifica wikitesto]

  • Jean-Pierre Cavaillé, Dieu trompeur, doctrine des équivoques et athéisme: entre Grégoire de Valence et Descartes, in "Potentia Dei. L'onnipotenza divina nel pensiero dei secoli XVI e XVII", a cura di G. Canziani, M. Granada e Y.-C. Zarka, Milano, Franco Angeli, 2000, pp. 317–334.
  • Henri Gouhier, Le malin génie et le bon Dieu, in "Essais sur Descartes", Parigi, Vrin, 1937, pp. 143–196.
  • Tullio Gregory, Dio ingannatore e Genio maligno. Note in margine alle "Meditationes" di Descartes, in "Giornale critico della filosofia italiana", 1974, pp. 477–516 (ristampato in T. Gregory, Mundana sapientia. Forme di conoscenza nella cultura medievale, Roma, Edizioni di Storia e Letteratura, 1992, pp. 401–442).
  • Tullio Gregory, La tromperie divine, in "Preuves et raisons à l'Université de Paris. Logique, ontologie et théologie au XIV siècle", a cura di Z. Kaluza et P. Vignaux, Parigi, Vrin, 1984, pp. 187–195 (ristampato in T. Gregory, Mundana sapientia, op. cit., pp. 389–399).
  • Emanuela Scribano, L'lnganno divino nelle Meditazioni di Descartes, Rivista di Filosofia, 90, 1999, 2, pp. 219–225.
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