Alcione (dialogo)

Alcione
Titolo originaleἉλκιόνη
AutoreAttribuito a Platone o Luciano di Samosata
1ª ed. originaleV secolo a.C.
GenereMitologia greca
Lingua originalegreco antico
ProtagonistiAlcione

L’Alcione (in greco antico: Ἁλκιόνη?) è un breve dialogo in cui Socrate narra a Cherefonte l'antico mito di Alcione, la donna trasformata da Zeus in un uccello marino.

Autore[modifica | modifica wikitesto]

La tradizione lo inserisce talvolta tra le opere di Platone, talvolta tra quelle di Luciano di Samosata, ma sembra non essere attribuibile a nessuno dei due[1]. Viene citato anche da Nicia di Nicea[2], storico della filosofia (da cui probabilmente dipende Favorino, all'inizio del II secolo), che lo attribuiscono a un certo Leone, membro dell'Antica Accademia[3], mentre studiosi moderni lo attribuiscono al I secolo a.C.[4].

Raramente compreso nelle raccolte moderne dei dialoghi platonici (in quanto già espunto nell'edizione di riferimento di Henri Estienne), viene solitamente incluso tra le opere spurie di Luciano[5].

Trama[modifica | modifica wikitesto]

Nel dialogo, Socrate racconta a Cherefonte l'antico mito di Alcione, una donna trasformata dagli dei in un uccello per poter cercare nei mari il marito Ceice, che in mare era disperso. Scettico nei confronti del racconto, Cherefonte mette in dubbio la possibilità che gli umani possano essere trasformati in uccelli e, in risposta, Socrate avverte che ci sono molte cose sorprendenti sconosciute o almeno non completamente comprese dagli umani, e sostiene l'umiltà epistemologica per i mortali alla luce delle capacità degli dei o, più in generale, alla luce di ciò che gli umani non sanno.

«O mio Cherefonte, delle cose possibili e delle impossibili noi siamo giudici di assai corta veduta. Noi giudichiamo secondo la potenza umana, la quale è ignorante, infedele, cieca, però molte cose facili ci paiono difficili, molte riuscibili ci paiono non riuscibili, sia per inesperienza, sia per fanciullezza di mente: perché fanciullo a me pare ogni uomo, per vecchio che ei sia, essendo assai breve il tempo della vita verso l'eternità. E come, o caro mio, non conoscendo la potenza degli Dei e dei Geni, potremmo noi dire quale cosa di queste è possibile, e quale impossibile? Vedesti, o Cherefonte, che tempesta fu l'altr'ieri? Fa terrore pure a ricordare quei lampi, quei tuoni, quella gran furia di vento: pareva dovesse subissare il mondo. Indi a poco si messe un sereno mirabile, che dura anche oggi. Ora quale cosa credi tu sia maggiore e più difficile, tramutare in tanta serenità quel terribil turbine e quella gran procella, e ricondurre la tranquillità su tutta la terra, o trasformare l'aspetto d'una donna in un uccello? Anche i nostri fanciulli, che imparano a plasticare, quando pigliano in mano cera o creta, formano e trasformano facilmente la stessa massa in varie figure secondo i loro capricci. Ad un Dio che ha forze grandi e non punto comparabili alle nostre, tutte queste cose sono facili ed agevoli. Ma orsù, sapresti dirmi di quanto credi che tutto il cielo sia maggiore di te?»

Per confronto, Socrate fa riferimento a una brutta tempesta che si è verificata di recente ed è stata immediatamente seguita da un'improvvisa calma. Una trasformazione così improvvisa è allo stesso tempo sorprendente, reale e al di là del potere degli umani. Sottolinea, inoltre, le grandi differenze di forza e intelligenza tra adulti e bambini, con questi ultimi spesso incapaci di comprendere cosa possono fare gli adulti. Entrambe le analogie, prese insieme, supportano la possibilità che gli dei possano effettivamente avere la capacità di trasformare gli umani in uccelli, processo che semplicemente non è compreso dagli umani, invece di essere impossibile. Socrate conclude decidendo di tramandare il mito ai suoi figli così come gli è stato comunicato, e soprattutto con la speranza che ispiri le sue mogli Santippe e Mirto[6] a rimanergli devotoː

«Ebbene, guardiamo un po' tra uomo ed uomo alcune grandi disorbitanze di potenza e d'impotenza. L'età virile in paragone de' bambini di cinque o dieci giorni, presenta una maravigliosa differenza di potenza e d'impotenza in quasi tutte le azioni della vita, per tutto ciò che sita con le mani industriose, e ciò che si opera col corpo e con l'anima. Quelle tenere creaturine non potrebbero giungere neppure a pensarlo. E la forza d'un solo uomo fatto è smisuratamente grande a petto alla loro: uno solo varrebbe più di migliaia e migliaia di essi: perché in questa età gli uomini sono per natura bisognosi di tutto e debolissimi. Essendo dunque tanta differenza tra uomo e uomo, immaginiamo un po' quanto maggiore della nostra apparirebbe la potenza di tutto il cielo a chi giungesse a mirarla. Però a molti parrà probabile che di quanto il mondo vince in grandezza Socrate e Cherefonte, di tanto la sua potenza, la sua sapienza, la sua intelligenza è maggiore della nostra. A te, a me, ed a molti altri come noi, molte cose sono difficili, che ad altri sono facili: infatti il sonare per chi non l'ha imparato, il leggere e lo scrivere per chi non sa di lettera, è più impossibile, mentre dura l'ignoranza, che il far degli uccelli donne, o delle donne uccelli. La natura depone nel favo un animaletto senza piedi e senz'ali, poi gli scioglie i piedi, gli mette le ali, lo dipinge di vari e bei colori, e ne fa l'ape, ingegnosa artefice del divino mèle: e dalle uova che sono mute ed inanimate ella forma tante specie di animali e volatili, e terrestri, ed acquatici, adoperando, come si dice, le sacre arti del grand'etere. Essendo dunque grande la potenza degl'immortali, noi che siamo mortali e pusilli, e non possiamo conoscere né le cose grandi né le piccole, e neppure quelle che accadono a noi stessi, noi non potremmo dire niente di certo né degli alcioni, né de' rosignoli. Ma questa bella favola, come ce la raccontarono i padri nostri, così io la racconterò ai miei figliuoli, o uccello che canti con melodiosa voce di pianto: e con le donne mie Santippe e Mirto io loderò la tua pietà, e l'affetto che avesti a tuo marito, e dirò ancora quale onore te ne diedero gli Dei.»

Come si afferma nella conclusione, la conversazione si svolge nel porto di Falero, che è anche l'ambientazione narrativa del Simposio di Platone.

Note[modifica | modifica wikitesto]

  1. ^ A.E. Taylor, Plato: The Man and His Work, Dover 2001, p. 552.
  2. ^ In Ateneo di Naucrati, XI, 506C.
  3. ^ Diogene Laerzio III, 62.
  4. ^ Cfr. W. A. Heidel, Plato's Euthyphro and Pseudo-Platonica, Baltimore, American Book Co., 1896.
  5. ^ In traduzione italiana, è disponibile in: Luciano di Samosata, Tutti gli scritti, a cura di D. Fusaro, trad. di L. Settembrini, Milano, Bompiani, 2007.
  6. ^ La tradizione che vuole che Socrate avesse due mogli contemporaneamente, Santippe e Mirto (quest'ultima figlia di Aristide), riportata da Diogene Laerzio II, 26, risulta inconcepibileː Platone e Senofonte ignorano Mirto, limitandosi a parlare di Santippe, sicché questo aneddoto, sebbene consolidato tra gli studiosi antichi, ha incontrato piena incredulità nei tempi moderni (cfr. G. Giannantoni, Socrate. Tutte le testimonianze da Aristofane e Senofonte ai Padri cristiani, Bari, Laterza, 1971, p. 285).

Bibliografia[modifica | modifica wikitesto]

  • Luciano di Samosata, Tutti gli scritti, a cura di D. Fusaro, trad. di L. Settembrini, Milano, Bompiani, 2007.

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